Spunti, buone pratiche, riflessioni e strumenti utili per chiunque si occupi di fundraising e lavori insieme ai Board.
Le icone nella parte bassa dello schermo: è ancora tutto aperto, tutto quello che, nel 2020, è stato il mio, il nostro mondo lavorativo e non. Dallo schermo del computer verso il resto del mondo.
È sempre stato un momento cruciale quello in cui, a fine anno o prima di una lunga vacanza, si chiude tutto con la consapevolezza che per qualche giorno cambieranno ritmi, si starà offline, il filtro non sarà lo schermo – non quello del computer, perlomeno (forse, in realtà, perché poi da un lavoro che si ama e che è in continuità con il resto della vita non è che ci si separi così, con una sorta di cesura netta…per fortuna).
Il 2020 è stato diverso, per tutti i motivi che conosciamo. Se penso che un anno fa, a quest’ora, se mi avessero detto quello che sarebbe accaduto avrei reagito pensando si trattasse di un film catastrofico made in USA…beh, dà la misura dell’entità di questi mesi.
Da tempo ho smesso di fare bilanci di fine o inizio anno, perché non mi piace l’idea del “saldo” che implicano. O meglio, lo faccio solo su quello che è riducibile a grandezze certe; sul resto preferisco l’idea dei puntini che si connettono, ma a volte anche no e va bene lo stesso perché la vita è molto più complessa di come riusciamo a immaginarcela.
Su questo blog scriviamo di governance e fundraising, di organizzazioni nonprofit, di consiglieri e fundraiser.
Quello che fa da sfondo a tutto questo è la visione delle organizzazioni come un puzzle che, per poter formare un’immagine, ha bisogno che tutte le tesserine vadano al posto giusto. La metafora (assolutamente poco originale) rende evidente quello che è il punto di osservazione da cui partiamo nel nostro lavoro, ovvero una visione a tutto tondo. Anzi, mi piace spesso definirla olistica perché ha dentro l’aspetto strategico del fundraising, quello creativo, quello dell’analisi organizzativa e non solo, quello legato alla tecnica e ai report/tabelle/KPIs e simili, quello legato alle persone dentro e fuori dall’organizzazione e molto altro ancora.
Nell’anno appena chiuso, ancora più che in precedenza, la visione a 360 gradi è stata quella che ci ha permesso di navigare un po’ più a vista, ma, in ogni caso, tenendo la barra dritta (più o meno, come tutti). E siamo certi che sarà la bussola anche per il futuro.
E allora anche noi vogliamo raccontarvi le nostre parole del 2020, quelle che ci hanno accompagnato e che si aggiungono a tutte quelle degli anni precedenti…perché i puntini, secondo noi, vanno connessi, o anche no, ma va trovato un filo che leghi il tutto per narrare il senso di un “fare” che è prima di tutto “essere”.
Cominciamo da qui, appunto. Non vorrei ripetermi, ma non riesco a non pensare che chi, in questi tempi complessi – e intendo virus o non virus – riesce ad andare avanti, ad essere progettuale nonostante i cambi di paradigma e il terreno che sembra franare sotto i piedi, è chi ha una visione d’insieme chiara. A volte meno definita rispetto al dettaglio, ma in grado di cogliere il modo in cui le cose si muovono e le opportunità che, pur nelle difficoltà, si portano dietro. Non è adattamento passivo o andar dietro agli eventi, è proprio la capacità di leggere e interpretare le situazioni declinandole secondo la propria personalità, il proprio sistema di valori.
È una caratteristica sempre più “pesante” in termini di approccio al futuro, di creazione di reti complesse, di costruzione di comunità. Nel 2020 ne abbiamo avuto esempi cristallini, ed è un insegnamento che ci portiamo dietro e vogliamo avere ben presente oggi.
In un momento storico che mette a dura prova certezze costruite nel corso di anni, e addirittura la struttura profonda del nostro modo di vivere (intendo l’Occidente, in primis), una mentalità orientata all’investimento è tra le caratteristiche che consentono di costruire passo dopo passo, in modo incrementale, e poi raccoglierne i frutti.
Dal nostro punto di osservazione il fundraising è andato bene, è cresciuto, sta cominciando ad uscire dalla cerchia ristretta di chi se ne occupa in modo professionale e a diventare qualcosa di più “pop” (passatemi il termine!), che magari viene fatto in maniera ingenua e spontaneistica e poi si scontra con certi appesantimenti burocratici, ma, comunque, produce cambiamento e forme solidali di interazione.
La condizione perché questo si verifichi è proprio l’investimento.
Le organizzazioni che negli anni hanno lavorato sul donor care, sulla relazione, sulla costruzione di legami forti, anche quando hanno visto un calo delle entrate sono comunque state in grado di sostenerlo. A fatica, ma stanno tenendo tutto insieme. Naturalmente il nostro è un punto di vista parziale, che non copre la totalità del nonprofit, ma ritengo possa essere un elemento significativo perché racconta qualcosa che, da diversi anni, ci diciamo tra chi, come noi, lavora in questo settore: chi non riesce – per ragioni culturali, perché il discrimine sta qui, non nei soldi o nelle risorse attivabili – ad investire per immaginare, governare e gestire il cambiamento, rischia di restare fuori da uno sviluppo del settore che – appunto, virus o non virus – in ogni caso c’è.
Certo, per “restare fuori” non intendevamo “arriva un virus da chissà dove” e causa tutto quello che abbiamo visto in questi mesi…ma di “cigno nero” sono anni che se ne parla (il saggio di Nassim Taleb è del 2007…) , e nel 2020 è arrivato sotto la forma del Covid-19.
Il cambiamento non è facile né immediato, va accompagnato, seguito, curato. Però è possibile, a condizione che lo si veda anche come una possibilità concreta di lavorare per migliorare. E si investa perché ciò accada. Ripeto: investimento non vuol necessariamente dire “avere tanti soldi”, spesso i driver di sviluppo sono un mix di tanti fattori. Occorre trovare il proprio mix e dargli corpo per realizzarlo.
Abbiamo visto cose spesso inenarrabili e impensabili, nel 2020. Tutti abbiamo davanti agli occhi immagini che mai avremmo pensato di vedere nelle nostre società protette, sicure, sane.
E invece.
E invece, come sempre, nelle difficoltà emerge tutto il buono che l’essere umano – gli esseri umani – sanno tirare fuori. Adesso ripeto un altro dei nostri mantra, e cioè che fare un lavoro come il nostro consente di vedere e avere a che fare con quella parte di mondo che si rimbocca le maniche, che quando “è nelle curve” non si lascia annichilire e, magari stringendo i denti e pure arrabbiandosi, prova a cambiare in meglio le situazioni.
È un punto di vista privilegiato, quello di chi lavora nel e con il nonprofit, perché non consente di abbattersi. Non per molto, perlomeno.
Insieme alle cose tristi, preoccupanti, disorientanti e tutto il resto, nell’anno appena trascorso abbiamo visto tante persone lontane anni luce da chi “frequenta” il nonprofit preoccuparsi per gli altri – l’ospedale cittadino, il vicino anziano, la famiglia in difficoltà economica, le persone che vivono da sole.
Certo, la stanchezza di questi ultimi mesi è ben diversa dal clima del primo lockdown della passata primavera (e mi fa una certa impressione numerarli, i lockdown, come se fossero una cosa normale nella nostra vita), ma quello che tiene insieme le comunità, i territori, è lì. Anzi, è qui, e va colto e coltivato. Lo abbiamo notato nei gesti quotidiani delle persone con cui abbiamo a che fare – ormai da marzo rigorosamente quasi tutte dietro uno schermo ma non per questo meno presenti.
Ecco, concludo con quello che è apparentemente un paradosso: la lontananza fisica e la freddezza di uno schermo non bastano ad allontanare le persone. E neppure le cause. Ci ripetiamo che torneremo ad abbracciarci, e va bene così, certo che è un’altra cosa. Così come è un’altra cosa vedere i sorrisi delle persone, potersi dare la mano (alcune tra le situazioni imbarazzanti dei mesi scorsi sono state proprio gli incontri, quelli formali in particolare, i saluti con un cenno della testa e gli occhi che sorridevano e il gesto del braccio che si muove per dare la mano e si ferma a metà). Siamo tutti in astinenza da tante piccole cose banali, lo sappiamo. Torneremo prima o poi a prendere un caffè o fare pranzi di lavoro senza preoccuparsi di distanze/mascherine/disinfettanti.
Ma, pur da lontano, noi la vicinanza del “nostro mondo” la sentiamo forte. E parliamo delle organizzazioni con cui collaboriamo e a cui ci legano rapporti che sono di lavoro, ma anche di stima e di molto affetto (anche quando le consulenze terminano restiamo sempre in contatto e ci fa piacere essere aggiornati su quello che fanno); e dei colleghi, e includo anche i colleghi di Consiglio Direttivo ASSIF con cui abbiamo iniziato da qualche mese un percorso impegnativo ma davvero di grande costruzione di opportunità per il futuro della nostra professione; e dei Consiglieri, Presidenti, Segretari Generali e di tutti coloro con i quali il rapporto diventa fiduciario, di grande vicinanza; degli amici che incontriamo lungo la via e con i quali scambiamo impressioni e feedback (non l’avevo ancora fatto, di inserire un inglesismo, e alla fine è arrivato!).
E questa vicinanza ci ha fatto star bene, ha lasciato aperto lo spiraglio sul mondo fuori dall’ufficio che fino al 7 marzo era la normalità quotidiana di treni/aerei/macchina/camminate e poi è diventata chilometri di ore in call su qualunque piattaforma esistente.
Gli scorsi 10 mesi ci hanno insegnato molto, sotto tutti i punti di vista. In particolare, ci ha insegnato che non bisogna necessariamente correre, correre sempre dietro al tempo rimpinzando ogni singolo minuto di qualcosa. E che spesso anche la quiete, il silenzio, la calma, sono un ingrediente necessario per essere persone e professionisti migliori. E che la tecnologia è un enorme vantaggio dei nostri tempi, se utilizzata con criterio. E che, comunque, ci manca un sacco vedere tutto questo anche dal vivo.
p.s. la foto è stata scattata poco sopra Ortisei, nei 2018, durante uno dei tanti cammini fatti in montagna. E’ una delle foto che amo di più perché ci sono le montagne, un sentiero che curva e non si sa dove vada, le nuvole disordinate e piene di sfumature e anche pezzi di cielo azzurro. E molto silenzio e natura.
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