Spunti, buone pratiche, riflessioni e strumenti utili per chiunque si occupi di fundraising e lavori insieme ai Board.
La criticità con cui più spesso ci confrontiamo è l’assenza, o la poca presenza, del Board nelle strategie di sviluppo delle organizzazioni nonprofit.
Altrettanto critica, tuttavia, è anche la dinamica opposta: quella, cioè, di una eccessiva presenza del Board – molto spesso del suo Presidente – in tutti gli aspetti dell’organizzazione. Anche quelli più operativi.
Apparentemente può non sembrare un fattore critico; nei fatti, invece, finisce per condizionare negativamente la fluidità dell’azione.
L’approccio corretto alle dinamiche organizzative – come a quasi tutti gli aspetti della vita – dovrebbe, nel mondo ideale, mettere in pratica il principio “in medio stat virtus”, tanto saggio da attraversare i secoli dal medioevo a oggi, ma altrettanto difficile da realizzare.
E, visto che tra gli estremi dell’assenza del Board e della “ultrapresenza” esiste una via di mezzo sana e salutare per tutti, mi sembra opportuno condividere qualche riflessione unitamente a qualche suggerimento su come orientarsi quando si verificano certe situazioni.
Il caso tipico è quello di una persona che assume su di sé l’intero onere di far andare avanti l’organizzazione in tutti i suoi aspetti – latamente strategici, di solito operativi fin nel più piccolo dettaglio.
La maggior parte delle volte a seguire questo schema di comportamento è il Presidente dell’organizzazione, con alcune eccezioni: nei percorsi sviluppati con i Board abbiamo incontrato presidenti e vice-presidenti molto (troppo?) attivi e anche Consiglieri particolarmente coinvolti nella vita organizzativa.
Sottolineiamo i termini: nella vita organizzativa, non nella mission. Perché il coinvolgimento nella missione è auspicabile e desiderato, anzi richiesto; quello nella vita organizzativa, quando oltrepassa i confini tra ruoli e funzioni, spesso inficia l’attività quotidiana.
Tra i principi di funzionamento delle organizzazioni c’è il ruolo (o funzione, o come lo si voglia denominare), che implica che ciascun componente – staff, Consiglio Direttivo, idealmente anche i volontari – sappia di cosa deve occuparsi, conosca i confini della propria azione e la flessibilità degli stessi, abbia cognizione dei flussi e della relazione con il resto dell’organizzazione.
Per fare un esempio: il fundraiser che, alla luce della necessità di verificare l’andamento delle donazioni, pretenda di definire la struttura dei flussi contabili complessivi dell’organizzazione e i meccanismi di registrazione delle entrate e delle uscite in generale, sicuramente eccede il proprio ruolo.
Quando questo riguarda il Presidente – prendiamo in esame questo ruolo in quanto rappresentativo della maggioranza dei casi di questo tipo – le ripercussioni sull’organizzazione sono, con tutta evidenza, più pesanti.
I compiti dell’organo di governance (qui trovate qualche spunto, e altri più dettagliati sono nel nostro “Board in prima fila”) sono definiti in primis dal punto di vista giuridico, nello Statuto; e andrebbero definiti anche nel disegno del Board con riferimento allo sviluppo dell’organizzazione.
All’interno della cornice, naturalmente, l’interpretazione del ruolo è lasciata all’orientamento individuale e del “consesso Consiglio Direttivo”, così che ciascun membro possa attivamente contribuire allo sviluppo della mission e dell’organizzazione stessa.
A volte, dicevamo, il Presidente assume un ruolo di preminenza – non in via di principio, ma nei fatti, nell’operato.
Un esempio concreto: il presidente (sempre a titolo esemplificativo) ritiene che per aumentare la notorietà dell’organizzazione si debbano organizzare una serie di eventi divulgativi che aiutino a raccontarla, definisce il format degli appuntamenti e seleziona gli ospiti diversificando il più possibile la provenienza così da coprire più ambiti, individua un calendario che condivide con gli ospiti. Senza che di tutto ciò alcuno, all’interno dell’organizzazione, ne sia informato. Poi, 15 giorni prima dell’avvio del ciclo di eventi, invia una mail al fundraiser condividendo l’idea, il calendario degli eventi e gli ospiti e chiedendo di elaborare un piano di comunicazione e promozione degli stessi nonché l’attività di raccolta fondi da organizzare al riguardo.
O ancora: il presidente non è soddisfatto della “narrazione” dell’organizzazione sul sito e sui social e chiede a chi si occupa di comunicazione di togliere il materiale esistente e al fundraiser di non utilizzare più quelle call to action e quel tipo di appelli, impegnandosi a rivedere in prima persona i testi e gli appelli in modo più coerente con la propria visione dell’organizzazione e assumendo su di sé l’onere dell’area comunicazione e fundraising. Dopo 3 mesi e mezzo una intera sezione del sito è totalmente vuota e, dalla stessa data, nessuna attività di engagement e fundraising è stata fatta tramite i canali digital per mancanza di una linea condivisa- meglio: di una linea tout court – tra il presidente e lo staff.
Apparentemente l’idea di partenza – in entrambi i casi – è ottima: io, in quanto vertice dell’organizzazione do personalmente un impulso all’attività della stessa allargando lo sguardo, nel primo caso; desidero che la mission venga comunicata diversamente e meglio e che gli appelli di fundraising siano coerenti con tale comunicazione, nel secondo.
Agisco, propongo e dispongo, vado avanti in prima persona e lavorando con alacrità, poi solo dopo mi ricordo/mi rendo conto che non posso fare tutto da solo/a e, allora, affido dei compiti a chi dovrebbe occuparsene in base al ruolo ma che, non avendo preso parte alla riflessione, è in difficoltà nel comprendere come adattare un programma di lavoro a qualcosa di non organico oppure lascio in standby una parte di attività perché, tra le mille cose che ho da fare, anche questa non riesco a seguirla anche se vorrei…e quindi resta un pensiero incompiuto (con tutte le conseguenze del caso per l’organizzazione).
E quando il fundraiser – o chi si occupa di comunicazione o figure di staff analoghe – fa presente che non ha idea di quale sia il filo conduttore di eventi già progettati e che, pur con un approccio proattivo e collaborativo, comunicare e fare appelli in questo modo è difficoltoso, in un caso, oppure (sempre il fundraiser o chi per lui/lei) continua a scrivere lamentando una flessione nelle entrate da raccolta fondi sui canali digitali/social, il presidente “legge” vede una carenza di disponibilità e competenze, pensa che ci siano sempre meno persone in grado di lavorare professionalmente e spendersi adeguatamente per una causa, pensando in modo strategico e andando oltre il proprio pezzetto di lavoro. Il presidente vorrebbe tutti un po’ tuttologi e velocissimi, come sé stesso, o sé stessa, in grado di cogliere al volo tutte le opportunità e sviluppare tutte le idee perché qualcosa di buono comunque arriverà.
Sicuramente persone “che vedono solo il proprio pezzetto di lavoro” esistono. E, tuttavia, modalità di azione come quelle sopra descritte sono quelle che, tipicamente, generano confusione e conflitto, situazioni in cui chiunque non è a proprio agio o non riesce a orientare in modo efficace il proprio lavoro quotidiano.
L’ottimo è nemico del buono. Provate a trovare una o più parole chiave dopo aver chiesto al presidente perché ha pensato proprio a quelle persone da invitare e, su quelle, costruite una narrazione “di visione”, ampia, che tenga conto dell’ispirazione che ha mosso il presidente e la declini sulla interpretazione della mission in maniera ampia.
Poi, però, chiedete (con tatto e con il sorriso) al presidente di non farlo più… perlomeno senza avervi avvisati! È un approccio costruttivo che mette a fuoco un metodo di azione non corretto, ma lo “reinterpreta” in maniera, appunto, costruttiva, che consente di non perdere un’opportunità.
Essere proattivi, avere iniziativa, è un’ottima cosa. Ma se esiste un Consiglio Direttivo che è un organo collegiale, e un piano di lavoro che serve allo staff per sviluppare iniziative e azioni, forse occorre inserire le idee rendendolo coerenti con il tutto. Per evitare conflitti e fibrillazioni e, soprattutto, per fare delle idee innovative un driver effettivo di progresso dell’organizzazione. Quindi: benissimo l’iniziativa individuale, ma, in generale, meglio fare un check dei piani di lavoro già definiti e concordare azioni nuove e innovative con lo staff, così da massimizzarne l’impatto e l’efficacia senza creare attriti.
“Maneggiare” le organizzazioni è materia complessa.
Essere in governance ed esercitare il proprio mandato richiede lungimiranza e mediazione tra l’entusiasmo e la necessità di essere concreti e ragionare/agire per step successivi.
L’approccio del “one man/woman company” è estremamente pericoloso: non solo perché genera confusione e moltiplica i processi, inclusi quelli non necessari, ma, soprattutto, perché nel lungo periodo genera disinteresse e deresponsabilizzazione in chi, nei fatti, si sente esautorato del proprio ruolo. Senza che, però, ci sia un reale rimpiazzo – no, per quanto in gamba, una sola persona non può sostituirsi ad un Consiglio intero o allo staff.
Per cui spazio alle idee e alle novità, ma sempre tenendo presente che un’organizzazione è un organismo complesso fatto di “sistemi viventi” che devono remare tutti (possibilmente) nella stessa direzione.
Spunti, buone pratiche, riflessioni e strumenti utili per chiunque si occupi di fundraising e lavori insieme ai Board.