Ricordiamo spesso che il punto di partenza per qualunque strategia di sviluppo di una organizzazione non può che passare dalla governance – da un’analisi della situazione corrente, dei desiderata, delle criticità, della visione di futuro che la stessa esprime.
La governance è anche il primo contatto che abbiamo, di solito, con le organizzazioni con cui collaboriamo, la prima interfaccia che ci racconta chi è quella organizzazione prima ancora di cosa fa. I primissimi incontri, dunque, avvengono con il Consiglio Direttivo (o comunque sia definito) e hanno un carattere concreto fin da subito: l’analisi viene collocata all’interno di una prospettiva che tiene dentro una dimensione di concretezza, mantiene “a terra” i discorsi e le opzioni possibili così da rendere tutta la discussione reale e realistica.
Non sempre i Consiglieri sono abituati a porsi determinate domande e non sempre sono tutti convinti dell’utilità di un intervento esterno, ma, nella stragrande maggioranza dei casi, anche l’eventuale scetticismo iniziale viene meno quando si comincia ad entrare concretamente nel merito. Il desiderio di contribuire è più forte del freno a mano tirato che a volte caratterizza certi Board.
Un ambito in particolare è, a nostro parere, strategico ai fini dell’indirizzamento e dell’impostazione corretta di una strategia di sviluppo: la costruzione di un orizzonte di senso che parta dalla narrazione e si traduca nella costruzione di una comunità di valori che aggrega chi ne condivide l’importanza.
Le parole, in questo senso, hanno un ruolo centrale, cruciale.
Molto spesso nell’analisi del modo in cui le organizzazioni “escono” le parole sono tutte uguali, non lasciano cogliere le specificità, i tratti caratteristici di una certa organizzazione, in un appiattimento che spesso viene inteso come una necessità di correttezza formale del linguaggio ma che, nella pratica, si traduce in “anonimato”. Il tentativo di comunicare credibilità e professionalità si trasforma spesso in una storia poco interessante, piatta. Che, di solito, premia il rigore formale ma dimentica un elemento centrale di qualunque narrazione: le persone. Ciò che, nel nostro quotidiano professionale, significa le storie delle persone che “fanno” l’organizzazione: la governance, certo, ma anche lo staff, i volontari, i beneficiari (o i visitatori, per citare un caso valido per gli enti culturali, o categorie omologhe in altri settori), i familiari degli utenti, gli stessi donatori.
Una narrazione che non includa il linguaggio che si forma a partire dall’interazione tra storie individuali e costruisce il linguaggio dell’organizzazione sterilizza la capacità di oltrepassare le mura fisiche e culturali e arrivare a chi vuole ascoltare.
“Le parole sono importanti” – citiamo spessissimo questa frase che Nanni Moretti pronuncia in Palombella Rossa. E, soprattutto, le parole sono raramente neutre o oggettive: costruire un linguaggio “proprio” significa definire orizzonti, impatti, visione, proporre scenari diversi e pratiche concrete per attuarli. Ecco, allora, che riportare nella homepage del sito, o nei materiali di comunicazione, lo stesso linguaggio utilizzato nello Statuto che fonda l’organizzazione, elimina tutta la soggettività che la stessa esprime e la riporta in una dimensione di correttezza “piana” e sterile.
Come fare, allora, per tirare fuori questa soggettività concreta e individuare le parole dell’organizzazione?
Vi diciamo come facciamo noi nei percorsi di consulenza per lo sviluppo con i Board e, in generale, con le organizzazioni con cui collaboriamo: lasciamo parlare le persone che sono l’organizzazione, spesso chiediamo loro di scrivere le risposte alle domande che poniamo, annotiamo le espressioni che usano quando si descrivono o descrivono qualcosa – un progetto, una iniziativa, una “ragione per cui …”, e componiamo il puzzle unico di quella organizzazione. L’insieme delle espressioni, anche e soprattutto quelle uscite a caldo, a partire dalle quali re-impostiamo il lavoro sull’identità, la mission, la creazione della relazione con il mondo che circonda l’organizzazione e la sua causa.
È un lavoro di taglio e cucito, che facciamo ogni volta su misura quando iniziamo una nuova collaborazione. Abbiamo sviluppato un metodo pratico che ci consente di arrivare subito al cuore dell’identità dell’ente che abbiamo di fronte, a partire dal cuore delle persone con cui sediamo durante le sessioni di questo tipo.
Il flusso che ne emerge – spontaneo, non formale né (in prima battuta) formalizzato – costituirà il nucleo per un riposizionamento, una messa a fuoco identitaria che, una volta restituita sotto forma di documenti di partenza per la strategia di sviluppo, quasi sempre sorprende (positivamente) coloro che sono stati i protagonisti di quella narrazione. Perché ci si riconoscono, si identificano con quel linguaggio e quel modo diverso, ma più autentico di raccontare la causa e stabiliscono una connessione diretta con la capacità di impersonarla quando devono “uscire” – durante un evento, o una presentazione o un incontro con un donatore o qualunque altra situazione simile.
Dire “Il personale facente parte della nostra equipe è specializzato e formato al fine di sviluppare competenze e sensibilità adeguate alla relazione con i pazienti” non è esattamente la stessa cosa di “A noi piace definirci persone che accompagnano persone. Siamo nati con l’intento di diventare una famiglia per i nostri pazienti e le loro famiglie in un luogo protetto in cui ciascun paziente possa sentirsi al centro. Un luogo in cui ciascun paziente e famigliare possa trovare un’equipe multidisciplinare integrata di professionisti, che accoglie, appassionata (…)”.
È un lavoro a volte complesso, ma che consideriamo cruciale nel nostro approccio alla consulenza per lo sviluppo.
E, soprattutto, è quello che ci rende profondamene grati per la possibilità di entrare in connessione profonda con le storie di altre persone, a volte lontane per ragioni anagrafiche, di percorso, geografiche o altro, e che ci permette di instaurare quel legame di fiducia reciproca che è la base per il lavoro da sviluppare insieme. Oltre che di imparare, approfondire, scoprire modi differenti di guardare il/al mondo.
Il suggerimento finale, dunque, è questo: costruite il linguaggio della vostra organizzazione, fate ogni tanto un check interno sul modo di raccontarvi e rapportarvi con la causa che portate avanti dal punto di vista semantico per verificare che davvero racconti chi siete – prima ancora che quello che fate! Perché è l’unico modo per costruire relazioni di senso e, soprattutto, dare la forma che volete alla missione che portate avanti come organizzazione.