Il primo elemento che colpisce quando si apre il sito della Fondazione è la chiarezza. Senza giri di parole né dichiarazioni altisonanti, esprimete in maniera limpida la mission della Fondazione. E altrettanto chiara è la connessione tra la storia familiare e il perché della Fondazione.
Sono elementi che trovo preziosi dal punto di vista dell’elaborazione del pensiero strategico prima che del piano di azione.
Quali sono stati i passi, le decisioni, le idee su cui avete iniziato a lavorare?
La Fondazione è, per noi, un punto di arrivo dopo diversi anni spesi a supporto del settore sociale sostenendo progetti e iniziative che incontravano il nostro interesse personale – intendo il mio e quello della mia famiglia. Sono stati anni di grandi esperienze molto diverse tra loro che ci hanno fatto capire cosa ci piace fare, cosa vorremmo fare, come ingaggiare – letteralmente – la famiglia rispetto ad un veicolo filantropico strutturato come una fondazione.
Il percorso che ci ha portato fin qui parte da un dato personale: da una parte il legame con il passato – nel nostro caso la figura di mio zio*, tetraplegico e persona illuminata a cui ero molto legato e che ci ha passato l’idea della motivazione e dello sport come veicolo di sviluppo – che ci ha permesso di focalizzare l’area di interesse. Dall’altra abbiamo avuto bisogno di riflettere attentamente sul veicolo, su come fare, cioè, a strutturare un percorso con un orizzonte di lungo periodo e non basato su iniziative sporadiche: personalmente sono agnostico nei confronti dei veicoli, quello che ci interessava era mettere a sistema di tanti interventi molto destrutturati fatti negli anni, a titolo personale. Abbiamo quindi definito quello che chiamo un ragionamento di struttura: una fondazione, pur avendo dei costi e presupponendo un commitment e un orientamento molto forti, ti permette di essere credibile, di stare sul “mercato”, di orientare interventi strategici e non episodici.
L’idea della fondazione di famiglia ci è sembrata quella che meglio ricalcasse questo pensiero. Peraltro, io sono convinto che nella fondazione possano lavorarci non solo persone appartenenti alla cerchia familiare e che sia opportuno e, anzi, necessario avvalersi di competenze di terzi esterni per far circolare idee e prospettive diverse. All’interno della riflessione strategica sulla Fondazione stiamo cercando di creare questo mix: non escludiamo l’integrazione di qualcuno di esterno alla famiglia, con competenze specifiche e che possa portare una visione complementare, “esterna” e un contributo intellettuale che ci permetta di ampliare lo sguardo.
E, sempre in tema di governance e di imprinting, siamo anche convinti che il Board diventi efficace quando i Consiglieri, oltre ad avere un ruolo strategico, abbiano anche deleghe operative per poter crescere nel loro ruolo, oltre che per far crescere e consolidare la Fondazione. Ed è quello che stiamo cercando di portare avanti sia come Consiglio che con il Segretario Generale della Fondazione, con riunioni di Consiglio dalle 4 alle 8 volte all’anno, un’impostazione per cui le linee strategiche le individuano e portano avanti operativamente i Consiglieri.
Il Consiglio attuale è composto, oltre che da me, da mia moglie e dai nostri due figli. Abbiamo ritenuto che fosse giusto, seppure ad una età molto giovane come la loro che hanno circa 20 anni, che vedessero come funziona un Consiglio di Amministrazione e, in generale, l’economia del Terzo Settore, così da avere uno sguardo ampio oltre il mero settore degli investimenti.
Come Consiglieri siamo tutti, in modo diverso, operativi – per me, in particolare, è stata una scelta di vita in cui credo profondamente e a cui mi dedico con passione.
Questo è il punto a cui siamo arrivati oggi.
Non è stato un processo breve né indolore – perché non basta “fare” una fondazione per farla funzionare bene – e in passato abbiamo fatto scelte che non hanno preso la direzione immaginata ma, d’altro canto, fa parte della cultura della nostra fondazione considerare il fallimento come l’esito inatteso di un’attività, qualcosa da cui possiamo imparare. L’approccio che portiamo avanti ha raggiunto il livello di efficacia che desideravamo e, oltre a questo, abbiamo imparato a declinarlo a partire da qualcosa che ci appassionava, perché senza passione è difficile costruire qualcosa di stimolante.
Il concetto del fallimento come scelte che sono andate da un’altra parte è molto interessante e, dal mio punto di vista, liberatorio. Quanto conta nell’approccio culturale della governance sapere di “potersi permettere” di fallire?
Occorre capire che mandato hanno i consiglieri e quando e quanto possano permettersi di “fallire”, perché è questione molto delicata.
La vera sfida del capitale filantropico, soprattutto per le piccole fondazioni come Fondazione Mazzola, a mio parere, è provare ad utilizzare la lente dell’innovazione per generare cambiamento; cercare, cioè, di raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissati f utilizzando criteri “non standard” – non perché questi non vadano bene o contengano limiti intrinseci ma perché è probabile che siano già stati utilizzati da altri soggetti filantropici e, in questo caso, secondo noi è più efficace utilizzare il criterio erogativo finanziando qualcun altro.
Se vuoi arrivare a determinati risultati che realizzino la visione che porti avanti occorre “puntare” su questo approccio: il capitale filantropico – ed è uno dei punti che cerchiamo di passare alla generazione successiva – deve, o dovrebbe, permettersi di essere un po’ ambizioso sui risultati sapendo che potrà generare un ritorno sociale, in qualche caso anche pseudo finanziario. Se non è chiara la distinzione tra capitale filantropico e capitale finanziario diventa difficile definire obiettivi attesi. Ed è un concetto che dovrebbe permeare tutta la cultura dell’organizzazione. Personalmente sto lavorando proprio alla definizione di cosa è il capitale filantropico, partendo dal presupposto che il capitale di ciascuno individuo è costituito dal denaro che possiede e da chi è dal punto di vista personale (il capitale umano, i valori, gli orientamenti). Avere chiara l’intersezione tra questi due aspetti significa non schiacciare il concetto di cambiamento solo sul dato monetario e considerare non perfettamente sovrapponibili capitale finanziario e capitale filantropico, così da aprire l’orizzonte a riflessioni e sviluppi più ampi. Ed è proprio in questa intersezione che dovrebbero lavorare le istituzioni del c.d. civil sector per produrre cambiamento.
Essere in governance è sempre anche una questione di chiarezza ed equilibri. A maggior ragione quando la governance è espressione di una storia familiare.
Come vi siete divisi in ruoli e in che modo il principio dell’efficacia dell’azione ha guidato tali decisioni?
Quanto definire a monte un impegno ha “ingaggiato” gli altri Board members e quanto li ha, invece, lasciati perplessi?
La fondazione nasce soprattutto da una mia spinta personale e la divisione dei ruoli è venuta in maniera piuttosto naturale, con un coinvolgimento attivo primario mio e di mia moglie e un ruolo meno operativo ma legato alla visione di sviluppo che riguarda i nostri figli, che attualmente vivono all’estero e che, causa Covid, negli ultimi 2 anni sono riusciti a seguire la fondazione solo a distanza.
Uno dei momenti di significato che ci ha regalato questa strutturazione è stato quando, durante un meeting di Consiglio in cui parlavamo di modalità di selezione di progetti da sostenere – e quindi si entrava molto nel dato numerico come valore chiave della sostenibilità, che tendeva a premiare certe categorie di progetti rispetto ad altre –uno dei nostri figli ci ha detto, letteralmente: “ricordiamoci che noi siamo una fondazione e una fondazione deve guardare veramente ai più deboli e a quelli che hanno bisogno, il rischio di schiacciare tutto il nostro operato solo sull’aspetto finanziario rischia di farci perdere l’anima sociale, per cui premiare solo quelle realtà in grado di produrre dati, outcome e output attesi, report, non realizza in maniera esclusiva un approccio filantropico che dovrebbe anche guardare ad altro”. E’ un concetto di cui mi ero un po’ dimenticato e lui me l’ha ricordato: il grande valore che possono apportare è la diversità – anagrafica e di contenuti – nell’azione della nostra fondazione, e questo è fondamentale perché è quello che realizza, nel nostro approccio, il concetto di “buona governance”.
Trovo molto interessante la sistematizzazione dei principi che guidano l’azione della Fondazione nel “Manifesto della filantropia”. Ritengo sia una condivisione fondamentale per definire il proprio pubblico, dal punto di vista dell’identità valoriale e di vedute e, a mio parere, dovrebbe essere un passo dirimente per qualunque organizzazione, esprimere la propria visione del mondo e presentarla al mondo stesso.
Rispetto a questo tema, quanto ritiene che la filantropia italiana sia in cammino verso una consapevolezza diversa – spesso uso l’espressione “filantropia come lifestyle, invece che materia per grandi patrimoni” – rispetto alla storia filantropica del nostro Paese?
Parlo a titolo personale: la definizione di fondazione come “bancomat finanziario-emozionale” si percepisce abbastanza, e credo sia il frutto del modo in cui storicamente ha “funzionato” il Terzo Settore nel nostro Paese.
C’è una fetta cospicua di enti filantropici che sono orientati alla mera erogazione, al finanziamento di progetti: naturalmente è un approccio che non ha nulla di sbagliato ed è il modo più veloce per supportare delle realtà – di solito le erogazioni, a meno di disastri, un po’ di sollievo lo apportano. Ci siamo però interrogati su come fosse possibile “fare del bene” meglio, perché è vero che il filantropo dovrebbe essere una persona che ama l’umanità ma, allo stesso tempo, penso che debba essere una persona che, oltre all’umanità, ama se stesso, e se tu stai interpretando male il ruolo filantropico che ti sei dato le conseguenze riguardano anche la sfera personale, l’impatto sulla tua vita di essere umano, e questo è il peggio che possa succedere.
Quando abbiamo dato vita alla fondazione abbiamo portato avanti l’onda lunga dei progetti che già sostenevamo (alcuni di questi esistono ancora e sono fuori dall’alveo della Fondazione); ci siamo però resi conto che non sono così efficienti, pur essendo tutti bei progetti, e ci è sembrato che – soprattutto se sei una fondazione piccola che vuole provare a crescere e ad interagire con dei partners e dei donatori – l’unico modo che realizzare l’approccio che intendevamo portare avanti fosse passare dal finanziamento dei progetti al “finanziamento dei cervelli”, analogamente a quanto accade nel mondo della finanza con gli incubatori e gli acceleratori.
Non abbiamo fatto nulla di nuovo – è qualcosa che già “praticavo” durante il mio percorso professionale – ma ci è sembrato il modo migliore per lavorare: all’inizio ci hanno guardato in modo un po’ stranito perché le organizzazioni con cui interagivamo erano abituate a presentare progetti, ma hanno capito l’approccio che stiamo cercando di portare avanti.
L’obiettivo della nostra fondazione è individuare un buon numero di soggetti da “alimentare” intellettualmente ed economicamente all’interno di una relazione bidirezionale in grado di determinarne, oltre alla sostenibilità strutturale, anche la scalabilità, perché se non si portano le azioni ad una minima dimensione industriale non si riesce a generare un grande impatto.
E’, questa, una logica che ci piace molto. Ci abbiamo messo 2 anni per definire questo tipo di modello semplice, pragmatico e scalabile, sia dal punto di vista della fondazione che dei soggetti con cui vogliamo lavorare.
Le persone, le cause sociali le aiuti in tanti modi, non ne esiste uno solo, e sono curioso di vedere cosa accadrà tra 3-4 anni dal punto di vista dei risultati prodotti dai progetti che stiamo sostenendo: non sempre sarà facile ma l’abbiamo messo in conto.
Torniamo al discorso sulla capacità di ascolto, che è fondamentale: non mi sembra che sia così diffusa, anche da parte degli enti filantropici, ma personalmente ritengo sia il modo migliore per spendere le risorse che abbiamo.
Un altro tema che ha suscitato il mi interesse è l’individuazione delle aree in cui la Fondazione opera, in particolare il mix di grantmaking e capacity building, pratica che lentamente sta entrando anche nell’azione di Fondazione a volte più “conservatrici” nel modello di intervento come quelle di origine bancaria. Come dire: erogazioni sì ma, in parallelo, anche un ruolo di sostegno alle competenze che generano sviluppo, autonomia crescente e visione strategica per le onp del terzo settore.
È un tema su cui credo che, nel nostro Paese, si debba e si possa fare di più, proprio per puntare sulla crescita e non solo sul sostegno puntuale a progetti o iniziative.
Quanto ha contato, per voi, la consapevolezza che occorre un approccio strategico – più complesso ma anche più efficace – per generare sviluppo e quanto le stesse onp hanno consapevolezza che occorra imparare per crescere e anche imparare a chiedere meglio?
Non lo so, noi abbiamo iniziato a lavorare con la Fondazione da 3 anni, quindi un tempo breve, e io sono un ottimista nato. Da una parte ci sono quelle realtà che sono in quella che chiamo “l’area di soddisfazione”, che si chiedono perché dover cambiare un approccio che, in qualche modo, li sostiene. Poi ci sono quelli che con l’innovazione si sentono più a loro agio.
Sono consapevole che non sia facile anche per le organizzazioni nonprofit comprendere e interiorizzare il cambiamento, e noi non vogliamo spiegare agli altri come devono lavorare: quello che ci interessa e su cui stiamo lavorando è impostare un dialogo. Se c’è chi lo apprezza lo affianchiamo, sennò – nel caso in cui ci convinca – siamo disponibili a finanziare anche in modo più tradizionale. E’ un po’ la mentalità che ha fatto propria Ashoka e che ha a che fare con il cambio di paradigma.
In generale sono convinto che condividere i punti di vista serva anche a definire chi sono i partner naturali con cui fare un pezzo di strada: con alcuni è così, per altri probabilmente non siamo gli interlocutori “giusti”.
Un problema che percepisco in particolare nel nostro Paese è la necessità del ricambio generazionale degli “organi apicali”: non c’è un giudizio su chi occupa lo stesso ruolo magari per 30 anni e sicuramente ha fatto delle cose meritevoli ma, per quel che riguarda Fondazione Mazzola, abbiamo un’idea differente.
Cosa suggerirebbe a chi, come lei, è all’interno della governance e si trova nella fase della definizione o ri-definizione della strategia di sviluppo? Qual è il punto o i punti su cui ritiene debba esserci un’attenzione particolare per evitare (o minimizzare) passi falsi?
– Chiarirsi bene su quali sono i propri obiettivi. Io ho deciso di costituire la fondazione quando mi è stato chiaro in maniera inoppugnabile che uno dei macro obiettivi della mia vita era il supporto ai soggetti fragili. E’ stata la spinta iniziale, e da lì è partito tutto. Se non si mettono a fuoco gli obiettivi personali di rischia di confondere lo strumento con l’obiettivo;
– Fare qualche chiacchierata con esperti del settore per ampliare lo sguardo all’interno di un confronto aperto;
– Formarsi: partecipare a conferenze, leggere, ascoltare chi vive dinamiche simili perché aiuta a mettere a fuoco la propria “direzione” – se uno vuole aiutare gli altri lo può fare direttamente a prescindere dal veicolo fondazione. Peralto una fondazione “fatta male” o che “non nasce bene” fa molti più danni: costituire una fondazione significa avere l’idea di scalare il modo in cui si affronta un tema, sennò sono soldi buttati via che potrebbero essere usati per sostenere singole iniziative.
– Individuare la governance a partire dalle motivazioni e dal coinvolgimento personale che i possibili consiglieri potrebbero avere rispetto ad una organizzazione: non è una questione di favori e, se si decide di intraprendere una strada come quella che abbiamo intrapreso noi, occorre porsi tutta una serie di domande a monte … perché non basta fare una fondazione, e farla senza porsi queste domande rischia di non produrre effetti e di generare un freno per la reputazione dell’intero sistema filantropico.
In generale, e per concludere, vorrei aggiungere che non è facile fare sistema o lavorare trasversalmente ma occorre provarci.
Io sono disponibile e se il mio lavoro può servire a far crescere nuovi presidenti di fondazione o nuovi filantropi sono disponibile, anche se so che le persone a volte temono di affrontare certi discorsi. Personalmente credo che il coaching sia uno strumento potente per generare ispirazione e dinamiche diffuse, che generino uno scambio non solo monetario e che diano al denaro un valore che va oltre il mero dato finanziario.
*Piergiorgio Mazzola, tetraplegico C6-C7, tra i pionieri nella diffusione di una cultura dell’inclusività e nel contrasto alle barriere, fisiche e percettive, che potessero limitare l’autonomia delle persone in condizione di disabilità.
Fondatore di Norisk, società di analisi finanziaria indipendente, Carlo Mazzola è stato consulente per investitori istituzionali e docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dopo essersi laureato in economia politica presso l’Università Bocconi, ha conseguito un master in economia e finanza presso l’Università di Warwick. È autore del libro “Investire in ETF – La sfida ai fondi comuni e alle gestioni” (Franco Angeli, 2005), primo testo in lingua italiana sugli ETF. È Presidente di Fondazione Mazzola che promuove lo sport come strumento per la salute, il benessere e l’empowerment delle persone in condizione di disabilità attraverso iniziative che consentano l’accesso alla pratica sportiva o che utilizzino lo sport come strumento di inclusione economica, di sviluppo di competenze e di inserimento lavorativo (www.fondazionemazzola.it)